Ho passato una settimana ad Expo, a Milano, al padiglione di Slow Food durante la settimana più calda di questo caldo luglio 2015.

Il padiglione Slow Food sta proprio in fondo: per arrivarci, entrando dall’ingresso principale, occorre usare la navetta o percorrere tutta la strada principale, fino all’ultimo padiglione, fino alla fine dell’ombra. Basta avere il coraggio di fare quei 10 metri sotto il sole che scotta per arrivare al padiglione della chiocciola, ma diciamocelo, son 10 metri che non tutti hanno il coraggio dopo i 2 km passati tra un pezzo di mondo e l’altro.

Ma io ci ho visto arrivare in 5 giorni: una ragazza giovanissima che cura la pagina Facebook di Slow Food Cina, un signore che fu tra i primi iscritti di Slow Food USA, un paio di ragazze statunitensi che portano avanti progetti per aiutare i bambini denutriti che vivono nel loro Paese ed erano alla ricerca di nuove idee. Ho sentito le storie di due ragazzi che hanno trasformato un allevamento intensivo di suini in un’azienda agricola diversificata fuori Milano, quella di quattro ragazzi che si sono messi a coltivare oltre venti varietà di patate in Valle d’Aosta, quella di un gruppo di maturandi di Fermo che ha studiato un sistema per creare una sorta di spettro sensoriale della mela rosa dei Monti Sibillini, presidio Slow Food, per identificarne le caratteristiche peculiari rispetto alle mele più comuni e un ragazzo australiano che, trovata la sua vocazione lavorativa in quel di Pavia ha dato voce alla storia del salame dell’Oltrepò Pavese.

[Lo sapevate che la tecnica di produzione del salame l’abbiamo imparata dal Longobardi?]

Poi ogni tanto ho scorrazzato liberamente di padiglione in padiglione, complice l’ingresso attorno alle 10.00, riuscendo a non vedere tutto, ma molto, o meglio, quanto è bastato per sorridere alle polemiche che hanno accompagnato l’assenza dell’Italia dal cluster del riso, (quando poi alla fin fine questi cluster davano l’idea di essere null’altro che aggregatori di paesi che da soli non avrebbero avuto le risorse per presentarsi),  quanto è bastato per innamorarmi delle altalene estoni e del bosco austriaco, dove alcuni merli sono riusciti a creare il loro nido e far nascere i loro piccoli (siamo bravi a distruggere, ma sappiamo anche ricostruire, volendo).

expo padiglione austriaLo sapevate che il Kazakhstan sta cercando di salvare dal completo svuotamento il lago d’Aral, quasi del tutto evaporato a causa della deviazione dei suoi 2 fiumi immissari ai tempi dell’Unione Sovietica?

E lo sapevate che la narrazione sull’olio di palma fatta nel padiglione della Malaysia fa venir voglia di mangiarne a quintali?

Sapevate che la cucina del Qatar si basa sul riso?

expo padiglione svizzera

Insomma di cose da imparare ce ne sono a pacchi, dai metodi di irrigazione dei paesi che convivono con il deserto alle cucine più svariate (e se non si riesca ad approfittare degli assaggini post show cooking si può mangiare tranquillamente con pochi euro gironzolando tra le cucine tradizionali o tuffarsi nel supermercato del futuro della Coop, se proprio non si vuol faticare a curiosare i menù dei vari padiglioni) e le occasioni di partecipare a dibattiti non mancano, a volerle cogliere e a saper leggere i programmi.

Se è bello e utile farsi un giro ad Expo? Secondo me sì.

Se servirà a cambiare le cose e a trasformare il nostro Paese? Ecco, questo non lo so. Perché mentre assistevo ad incontri dove il pubblico era poco e chiacchieravo con le ragazze che lavoravano al bancone la percezione dell’occasione persa si faceva in me sentire in modo importante: ah, avessi saputo prima che non era Manpower l’unica agenzia a cui mandare i curriculum, – anzi! –  Ah, fossi stata capace di propormi come curatrice di contatti per la promozione degli eventi invece di vederli deserti! Ah, avessi letto più attentamente il programma durante i vari giorni in cui potevo gironzolare beatamente invece che perdermi conferenze utili! Ah, avessi chiesto il biglietto da visita a tutte le persone interessanti che ho conosciuto…

Certo, non avranno perso occasioni, immagino, le aziende che hanno investito per esserci, quelle preparate dai precedenti analoghi eventi in giro per il mondo, ma forse qualche occasione la sta perdendo chi non intende mettere naso tra le cose che accadono basandosi sul sentito dire, sulle critiche dei giornali, sulle impressioni altrui, spesso architettate dai professionisti della polemica.

[No, non ho visto dove la Coca Cola distribuiva Coca Cola, sì, ho bevuto una birra, no, non era Moretti, no signore arrivato da meno di un’ora non ho proprio capito dove l’hai visto questo stand della San Pellegrino, e comunque cosa aspettavi di trovarci? Un distributore di pitina?]

Magari a quelle centinaia di ragazzi, volontari da tanti paesi, che si sono incrociati in questi mesi non sarà capitato di perdere l’occasione, come non hanno perso l’occasione le migliaia di giovani che stanno lavorando in questo ecosistema lavorativamente strano, ma in un contesto senza dubbio unico.

E riuscisse, anche solo a tutti loro, da cui ho origliato storie d’amore nate tra giardini a tempo determinato e navette mescolate a teorie sulla conservazione dell’acqua, portare a casa da tutto questo qualcosa di buono, beh, non sarà stato tutto un accadere vano.

Nel frattempo mi confermano che non si sono mai viste così tante libellule in giro per Milano.

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