Ce lo siamo dette al telefono. Noi, che proprio grazie a Twitter ci siamo conosciute: “ti ricordi com’era? Ora non lo apro quasi più.”

Della crisi di Twitter, il social network che pareva destinato a rivoluzionare modi e tempi delle relazioni e dei rapporti, anche di forza, hanno scritto ormai in tanti. Stavo lì a scribacchiare, condividere, spiegare, domandare ormai da sei anni e più e poi d’improvviso, quasi senza accorgermene, ho a poco a poco quasi smesso.

C’è chi ha scritto che il problema sta nella piattaforma: non è riuscita, si dice, a diventare di massa, a rendersi usabile dall’utente medio, a fare il salto. Fosse solo così, mi dico io, non ne avvertirei la mancanza. Ritroverei in altro la soddisfazione dei miei interessi. In fondo i contatti, le amicizie, la rete partita da lì negli anni è diventata nel tempo parte della mia rubrica del telefono e a tanti username senza volto sono riuscita a darne uno, tra eventi, incontri e festival.

Ma Twitter permetteva (permette?) non solo di intrecciare relazioni capaci di trasformarsi in progetti, occasioni professionali, amicizie, ma anche di seguire le notizie del momento, carpirne le impressioni, condividere a propria volta. Bastava la mattina aprire la propria timeline per intuire tra le tendenze di cosa parlavano le prime pagine dei giornali in edicola, quando non addirittura prevedere di cosa avrebbero parlato il giorno dopo.

Era (è?) lo spazio dove poter accorciare tanti livelli di separazione: chiamare in causa i parlamentari e i rappresentanti politici che avevano il coraggio di starci, costruire storie capaci di influire il dibattito quotidiano se non addirittura qualche idea, era il posto dove commentare e condividere incontri pubblici seguiti dal vivo a chi in quel momento stava altrove.

Ma da un po’ la timeline la mattina mostra che un po’ di cose sono cambiate: bastano poche interazioni attorno ad un medesimo hashtag per mandarlo tra le tendenze e di profili rimasti attivi capaci di proporre cose davvero interessanti ne sono rimasti davvero pochi.

Pensavo, prima di leggere più di un articolo dedicato alla crisi di Twitter, che le mie fossero soltanto percezioni legate al trasloco, al vivere un territorio dove i numeri di twitteri sono davvero piccolissimi e pensavo che forse vivevo eventi, momenti, probabilmente poco interessanti al di fuori di qui, di essere io fuori fuoco rispetto alle cose importanti del momento. Che fossi io cambiata, rispetto a un mezzo immutato. Invece poi ecco che ho iniziato a fare qualche calcolo. Sei, sette anni sono tanti. Sono anni lunghi abbastanza per cambiare, di molto, tutti. E’ un periodo grande a sufficienza per mutare esigenze, modificare l’attualità dei temi, rendere cose che magari prima potevano essere urgenze di un collettivo ristretto, minoritarie anche a quel collettivo. O esigenze sconfitte in una battaglia mai affrontata.

E allora ecco che mi è venuto spontaneo pensare che la malinconia che mi sorge pensando al declino di Twitter è legata al fatto che lo allacciavo a speranze che scivolano via senza trovare altro spazio, al momento, così mi sembra, dove aggregarsi attorno.

Qualche anno fa c’era un bel chiacchierare di citizen journalism e attivismo digitale e del futuro dell’informazione: oggi mi sembra che l’evoluzione sia stata diventare al massimo fonti inconsapevoli di notizie in base a commenti pescati su Facebook da qualche corrispondente e l’attivismo si è fermato all’abitudine a firmare qualche petizione online. Il giornalismo italiano non ha fatto nessun passo in avanti, anzi, sembra sempre un po’ più povero.

Facebook, che sembrava insufficiente a funzionare come spazio di creazione di qualsiasi cosa, è ormai per molti parte integrante della propria agenda e fonte primaria d’informazione, tra bufale che si incastrano nelle menti delle persone, senza che chi ha il potere di stoppare la catena delle menzogne riesca ad intercettarle, e tentativi di ragionamenti qualche volta anche seri che non riescono a prendere forma.

Forse esagero e so che la mia è soltanto una visione di parte, ma nel declino di Twitter ci leggo non tanto un’incapacità, volontà, (lungimiranza?) societaria, ma piuttosto la vittoria di chi ha preferito sottrarsi alla possibilità di una sorta di disintermediazione comunicativa, la vittoria di chi in questi anni è andato predicando la difficoltà e inutilità di questo mezzo anziché la sua diffusione e forse, sbagliando, ci vedo anche un po’ una sorta di resa da parte di chi un po’ ci credeva che potesse anche questo strumento, contribuire a mutare la narrazione del mondo. E questo vale un po’ anche per chi ha sempre usato Twitter per costruire e rilanciare contenuti divertenti.

Che poi resa può essere tante cose, può essere il tempo che passa e cambia tutti, muta le possibilità e le opportunità personali, (di)mostra i pochi come punti singolari e non masse e spoglia i mezzi delle storie, a volte forse esagerate, che gli si erano costruite attorno.

Ed ecco che basta allora che qualcuno si sottragga, anche solo per un momento, al lavorio di intreccio di reti, che scelga di dedicarsi alla fotografia, alle piante, al lavoro, alla famiglia anziché all’attenzione costante agli eventi, alla ricerca di hashtag con cui far divertire gli altri utenti, che molto finisce con lo svuotarsi. Basterebbe oggi che 2-3 account italiani su Twitter si spegnessero e tanti discorsi quotidiani su libri e letteratura svanirebbero del tutto, senza trascinati che provano a vestirsi da trascinatori.

Chissà, magari mi sbaglio. Magari tutto quel che mi manca si è solo spostato da un’altra parte e io sono soltanto un po’ distratta. Ma sommando tante cose, compresa appunto un po’ di malinconia, sento quel gusto provato altre volte di mondi e cose che eravamo convinti di esser lì lì per cambiare e sono ancora lì com’erano, perché ci sembravamo tanti con certe idee in testa e invece a contarci eravamo davvero pochi.

 

 

Pubblicità