Quando cambi città c’è un tempo indefinito in cui puoi scegliere: o impari a memoria le tue quattro mura o ti infili in mezzo alla vita degli altri. E ti senti un po’ come in quel film dove il protagonista ascolta le storie altrui, solo che gli altri in questo caso spesso ne sono consapevoli e, anzi, a volte ti fanno i riassunti.
Come lo capisci altrimenti un luogo?
Come la identifichi altrimenti una comunità?
A volte trovandomi ad assorbire le storie altrui mi sento un po’ ladra, per età o geografia. Chi sono io per meritare la tua storia? Forse lo capisci, tu, altro, che ne ho bisogno? O forse io servo a te per naturale e istintivo bisogno di collocare gli elementi estranei dalla parte della tua storia prima che ne prevalga in loro un’altra?
In questi giorni qualcuno in città si è indignato per alcuni nuovi parcheggi temporanei tracciati dal comune all’interno di un viale normalmente attraversabile solo a piedi o in bici. Ho dovuto leggere fior fior di interventi su Facebook per capire le ragioni dell’indignazione trascritta sui social. Quel pezzo di città per me brutto, tanto più adesso, con gli alberi spogli e i rami storpiati da anni di pessime potature che la sera o quando il cielo è grigio gridano vendetta, è per molti un luogo bello, un luogo legato ad un passato di giochi, uno spazio di loro storie per nulla scontate o ovvie a chi lo guarda in una qualsiasi giornata d’inverno. Lì dove la città ha inizio, subito dopo la stazione, per qualcuno le auto (o meglio, le strisce tracciate per terra) hanno rappresentato la bruttezza innestata in una bellezza provata, sedimentata, che in qualche modo appartiene al ricordo collettivo. Non conservata, forse (altrimenti passarci la sera sarebbe forse un’esperienza piacevole e in generale vederne una fotografia susciterebbe condivise emozioni positive), ma di certo presente in qualche frammento di memoria.
Per me che riesco a guardare quei parcheggi soltanto attraverso parametri molto più generali quelle strisce in terra blu rappresentano soltanto un tentativo di resistenza da parte di una categoria che continua a trovare fuori da sé la causa dei suoi guai – e per questo li accetto e li capisco come (insignificante) conseguenza del nostro tempo. Niente di indelebile ed eterno, niente di simbolico, per me, oltre al valore simbolico che ha il costante discutere di posti auto in quel di Vercelli (e se si parlasse ogni tanto di posti di lavoro anziché auto? I parcheggi, creati i primi, ho come l’impressione che si moltiplicherebbero).
E mentre rifletto su questa storia, o meglio, sul fatto che non riesco davvero a sentire e farmi coinvolgere dall’unica occasione di contestazione con tanto di evento artistico in programma da che sono qui, mi domando se vani sono stati gli sforzi di provare ad essere ramo d’innesto. O forse sono solo infinite le storie che ancora dovrò ascoltare? O forse dopo una certa età si è segnati per sempre dal bagaglio che ci si porta dietro da riuscire a capire solo in parte i luoghi nuovi?
[Qualche anno fa partecipai ad un incontro pubblico dove Gabriele Centazzo, imprenditore illuminato, all’epoca del racconto ancora a capo di Valcucine, aprì una riflessione sulle potature di comodo lungo i bordi delle strade e sulla bellezza che riparte anche dal riconoscere le forme della natura. E così mi sono resa conto che certe figure mostruose non è la natura a crearle, ma l’uomo che lascia fare all’uomo, perdendo di vista la bellezza. Poi ci si può anche arroccare tra miti del passato e ricordi, ma diventa sempre più difficile al resto del mondo capirli quando di loro si lascia che restino solo moncherini levati al cielo.]